I DSA nella prospettiva della Psicosomatica Integrata

di Simone Matteo Russo

Psicologia Psicosomatica – 18 – Pubblicato 19 Settembre 2012  (ARTICOLO IN PDF)

“Ma cosa c’entra la psicosomatica con i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA)?”. Obiettivo di questo articolo è di esplorare come l’approccio Psicosomatico Integrato possa introdurre una prospettiva inedita dalla quale analizzare il “fenomeno DSA”. La novità è rappresentata dal considerare il corpo come punto di partenza per interrogare una serie di aree e ambiti clinici che solitamente vengono attribuiti alla psicologia o al pensiero medico.

Al contrario di quanto si è soliti pensare, c’è il corpo alla base dell’apprendimento e non la mente. L’errore che spesso commette la psicologia clinica è di approcciarsi al problema solo da un punto di vista psicologico e/o cognitivo. L’obiettivo del modello Psicosomatico Integrato è di allargare il campo d’osservazione e d’ascolto al problema, nonché le possibilità d’intervento terapeutico, a dimensioni che riguardano le componenti somatiche del disturbo. Solo in un secondo momento ci si occupa di ricostruire i circoli viziosi somato-psichici e le conseguenze che inevitabilmente ricadono sugli aspetti psico-relazionali e cognitivi del soggetto.

In via prioritaria è fondamentale definire e chiarire che la concezione di “psicosomatica” alla quale mi riferisco non corrisponde né a una sintomatologia specifica né a una sotto-categoria clinica. Tra gli “addetti ai lavori” si è soliti attribuire l’etichetta di “disturbo psicosomatico” a una tipologia di sintomi di confine in cui un’eziologia sfuggente mette in scacco teoria e pratica clinica sia della Medicina che della Psicologia.

Il modello medico continua a ritenere la medicina una disciplina scientifica che si occupa di misurare obiettivamente il corpo. Salvo alcune eccezioni, come i “casi psicosomatici”, nei quali non si riscontra attraverso accertamenti strumentali alcuna causa “oggettiva”; ne consegue che il disturbo, non trovandosi nel corpo, risiederebbe nella mente del soggetto.

Il risultato di tale assunto è un appello forzoso ad un altro mondo interpretativo, quello psicologico, che a differenza del primo tende ad attribuire al soggetto la responsabilità della propria sofferenza. Così facendo, tuttavia, anche il modello psicologico è ridotto all’impotenza di fronte all’impermeabilità di specifiche “logiche del corpo” quando queste si dimostrano resistenti o sfuggenti al metodo interpretativo della talking cure (Scognamiglio, 2008). Un campo tende ad escludere l’altro e le due res continuano a rimanere distinte non consentendo lo sviluppo di un modello interdipendente. A fare le spese di tale impasse epistemologica è il paziente: in un caso si sente attribuire implicitamente una patente di “malato psichico” -“il male che sente nel corpo non esiste, il problema è nella sua mente”-; nell’altro viene colpevolizzato di non voler capire o analizzare fino in fondo le implicazioni psichiche in ciò che accade dentro di sé.

Nello sforzo di superare gli steccati corporativi che inevitabilmente costringono ad un pensiero limitato e limitante, la concezione di “psicosomatica” del modello Integrato riguarda un campo epistemico (nota I) che indaga il complesso ambito dei rapporti tra il corpo e la mente. Quella che sto delineando è un’area di pensiero trasversale, in cui si rende necessario un metodo euristico (nota II), per la natura indeterminata del punto di contatto tra due dimensioni – psichica e somatica –  che riteniamo sempre interdipendenti nonostante si esprimano attraverso codici differenti. Tale approccio metodologico viene applicato a qualunque elemento si ponga sotto la lente d’osservazione: l’obiettivo non è di categorizzare rispetto a ciò che già si conosce bensì di farsi “portare dentro” dal fenomeno da analizzare, cercando di ri-costruirne la processualità, la storia dell’evento e i rapporti con i diversi contesti d’appartenenza.

Dal comune “mal di testa della domenica”, alle allergie, alle problematiche muscolo-scheletriche, per arrivare ai disturbi del sonno, dell’umore fino ai DSA, il modello Psicosomatico Integrato concepisce sincronicamente qualunque disfunzione, sia come un segnale di rottura di equilibri psico-somatici individuali che come espressione di sofferenza di un “essere-nel-mondo”.  Tale dis-regolazione segnala un blocco dei sistemi d’adattamento omeostatici alle inevitabili richieste ambientali, ad esempio relazionali, ma anche ecologiche, politiche, contestuali, e qualunque forma di esposizione prolungata a condizioni di stress.

Come ci svela l’etimologia del prefisso dis-: in qualunque dis-turbo, dis-crepanza, dis-armonia sono presenti problematiche di separazione e d’opposizione rispetto a valori, pensieri, comportamenti che il contesto sociale dominante di quel momento non ritiene “nella norma”. La storia ci insegna come ogni epoca abbia un pensiero che impone in modo univoco criteri specifici per valutare e stabilire la natura delle dis-funzioni rispetto a ciò che ritiene “normale”. La mancata sintonizzazione delle presunte dis-abilità individuali con le aspettative sociali produce un dis-adattamento che prende la forma di un dis-turbo che, prontamente, il pensiero dominante definisce come “specifico” per evitare implicazioni e co-responsabilità. Un’eventuale inclusione, infatti, avrebbe un effetto destabilizzante costringendo il sistema a mettere in discussione i propri assunti di base, i quali possiedono una fondamentale funzione di potere e contenimento sociale, definendo a priori ciò che è accettabile rispetto a ciò che non lo è.

Al contrario, l’esperienza clinica insegna che ogni sintomo è generato e condizionato dall’incontro tra le istanze soggettive e le diverse aspettative dell’ambiente in cui insorge il mal-essere: qualunque risposta soggettiva sintomatica deve essere contestualizzata per essere compresa nella sua essenza. Dunque,  secondo l’approccio Psicosomatico Integrato, non esiste un fenomeno “specifico”, cioè isolabile dal contesto, poiché qualunque sia il disturbo questo è sempre inserito e in rapporto ad un sistema più ampio che lo condiziona rendendolo, di conseguenza, complesso. In maniera opposta, il trend contemporaneo istituzionale della cura tende alla semplificazione e alla separazione dei saperi per occuparsi dell’oggetto di studio, cioè il sintomo da eliminare, separandolo dal soggetto con tutte le sue implicazioni. La tendenza attuale è alla spiegazione lineare e schematica dell’eziologia che si serve del pensiero scientifico per ridurre la complessità a semplici rapporti di causa-effetto anziché allargare l’indagine anche a tutti gli altri contesti nei quali il soggetto con il suo disturbo è incorporato e connesso.

I DSA in ambito scolastico

Dopo questa corposa introduzione teorica, vorrei mettere alla prova il modello iniziando a esplorare l’ambito scolastico, nel quale una parte dei DSA vengono rilevati e segnalati per includere successivamente nell’osservazione gli altri ambienti (sociale, familiare, ecc…) nei quali il soggetto DSA si trova a interagire. I numeri di questa epidemia sociale sono impressionanti: si stima che il problema riguardi complessivamente 350.000 studenti italiani dei quali solo una piccola percentuale in realtà ha avuto una diagnosi (circa 50.000 secondo i dati del MIUR) mentre gli altri restano “invisibili” (Genovese et al., 2011). A tal proposito, si calcola che nella realtà italiana 2 dislessici su 3 non vengono identificati durante il percorso della scuola dell’obbligo (Ghidoni, Angelini e Stella, 2010).

Ma quali sono i fattori che hanno causato la proliferazione di studenti con DSA? E inoltre, negli anni in cui gli attuali docenti sedevano nei banchi come studenti, i DSA non esistevano o, più semplicemente, non venivano rilevati?

Cercando, come detto, d’uscire da un approccio circoscritto al problema, quello che negli ultimi vent’anni si è potuto osservare nelle scuole di ogni ordine e grado sono una serie di rapporti di vicinanza che i DSA hanno intrattenuto, e tutt’ora intrattengono, con tendenze “patologiche” di altri fenomeni di massa, i quali hanno spinto il mal-essere a scuola ad assumere specifiche configurazioni. Oltre al dilagare dei DSA, intorno agli anni ’90, gli insegnanti hanno cominciato ad osservare e a lamentarsi di una disposizione del disagio scolastico che progressivamente andava a concentrarsi intorno a precisi “comuni denominatori”: corpi iperattivi, deficit d’attenzione e di concentrazione (da registrare in quegli anni l’esplosione delle diagnosi in bambini e adolescenti del “disturbo d’iperattività e deficit d’attenzione”, o ADHD), incapacità di tollerare l’attesa e la frustrazione, assenza di motivazioni, desideri, fantasie. Sul versante della trasmissione delle informazioni, lo spessore simbolico della parola è sembrato inesorabilmente perdere di consistenza, d’autorevolezza e di valore di contenimento, rendendo di fatto sempre più difficile un apprendimento che non passi da un “corpo a corpo” con l’esperienza. L’ingombro del corpo nella vita scolastica ha preso il sopravvento a tal punto che gli insegnanti hanno lamentato una fatica sempre più estenuante nel farsi ascoltare, nell’ottenere il silenzio, nel creare le condizioni di base per trasmettere la conoscenza e introdurre su di essa riflessioni o considerazioni da condividere con i loro studenti. Le contromisure adottate fino ad oggi sono state “agite” con la stessa modalità dei problemi che volevano risolvere: i cambiamenti (modifica al ribasso della richiesta didattica, riduzione dei programmi ministeriali, innalzamento dei criteri di valutazione della performance) più che introdotti sono stati indotti forzatamente dall’esterno e non hanno né arginato la caduta della motivazione, né facilitato i docenti nella gestione comportamentale dei gruppi-classe divenuta oggi sempre più complicata. Incontrollabilità e iperattività sono fenomeni che si registrano ormai abitualmente già nelle prime classi elementari: “il problema non è insegnare, ma farli stare seduti sulla sedia!” è attualmente la considerazione più frequente che mi capita di ascoltare dalle maestre della scuola primaria.

La manifestazione e il diffondersi di tali tendenze risultano immediatamente successive all’affacciarsi sullo scenario sociale di una condizione che, più o meno a partire dai primi anni ’90, ha progressivamente trasformato i modi e i tempi dello stare in contatto: l’avvento della digitalizzazione di massa. L’impatto di questa vera e propria rivoluzione cibernetica non ha salvato nessun contesto né categoria sociale ed è ingenuo pensare che la diffusione della tecnologia non abbia avuto ripercussioni sulle menti e sui corpi degli studenti di oggi solo perché non è ancora avvenuta l’introduzione dei computer nelle classi. Videogame, cellulari, internet sono penetrati nella vita quotidiana di tutti, modificando non solo abitudini e ritmi di vita ma progressivamente la struttura delle nostre menti, soprattutto per coloro, denominati oggi “nativi digitali”, nati e cresciuti dopo l’avvento dell’informatizzazione di massa.

Già nel 1964, McLuhan nel suo saggio “Il medium è il messaggio” ci metteva in guardia sul profondo potenziale trasformativo dell’innovazione tecnica sui nostri corpi scrivendo che “la reazione convenzionale a tutti i media, secondo la quale ciò che conta è il modo in cui vengono usati è l’opaca posizione dell’idiota tecnologico” (McLuhan, 1964, pp. 36-37). Nel lungo periodo, infatti, il contenuto di un medium ha molta meno importanza del medium stesso nell’influenzare il modo di pensare e di agire. “Gli effetti della tecnologia non si verificano, infatti, a livello delle opinioni o dei concetti”, piuttosto essi alterano “costantemente e senza incontrare resistenza, le reazioni sensoriali o le forme di percezione” (McLuhan, 1964, p. 37). Nonostante l’ostracismo delle multinazionali che dalla digitalizzazione hanno ricavato business inimmaginabili, i dati di alcune ricerche outsider dovrebbero indurre profonde riflessioni: per esempio, uno studio pubblicato nel 2000 su 2200 mamme con bimbi di età compresa tra i 2 e i 5 anni, residenti in 10 Paesi diversi, Italia compresa, mostra risultati che indicano un cambiamento strutturale nelle abilità dei bambini dell’ultima generazione: il 58% è in grado di utilizzare il computer per giocare, il 25% sa aprire un browser e navigare; tuttavia, solo il 52% sa andare in bicicletta, solo il 20% sa nuotare e solo il 9% sa allacciarsi le scarpe da solo.

Questo significa che un bambino che non ha ancora acquisito una padronanza completa nell’uso della parola, nella maggior parte dei casi possiede già una capacità di digitalizzazione informatica. Ma cosa c’entra “saper aprire un browser e navigare” con le problematiche osservate dagli insegnanti di studenti che faticano ad ascoltare, a riflettere e ad apprendere? Quando un bambino apprende a relazionarsi così precocemente con schemi procedurali digitali tenderà ad aspettarsi che l’interlocutore si sintonizzi e risponda su tali frequenze, ritmi, schemi. Nel modello Psicosomatico Integrato, per “codice digitale” s’intendono quei processi comunicativi che si impongono direttamente al sistema sensoriale senza essere veicolati e mediati da processi di natura cognitiva ed elaborativa: giocare con un videogame, guardare la televisione, navigare in internet sono esempi di contesti digitali nei quali la continua attivazione della sensorialità corporea va a scapito della produzione di processi mentali riflessivi. Nella stragrande maggioranza dei casi un bambino, mentre gioca con un videogame, è totalmente assorbito all’interno di un mondo digitale che non gli chiede riflessioni bensì movimenti riflessi sempre più veloci; il coinvolgimento cresce con l’apprendimento ripetitivo di automatismi di risposta che porteranno a un’iper-attivazione corporea a scapito della stimolazione metacognitiva (nota III).

Inoltre, l’acquisizione dei meccanismi automatici spingerà il bambino ad applicare ciò che conosce anche ad altre realtà non digitali che, tuttavia, non saranno facilmente accessibili in quanto strutturate e organizzate su tempi e modalità differenti. Per tornare alla ricerca sopracitata, un bambino stimolato per molto tempo in modo attivo (ad esempio, quando gioca ai videogame) o passivo (ad esempio, quando guarda la televisione) a ricevere input di natura digitale, quando si troverà a confrontarsi con attività più lente e più “complesse” da un punto di vista della coordinazione e dell’integrazione percettivo-motoria, come ad esempio allacciarsi le scarpe o andare in bicicletta, incontrerà molte difficoltà a far proprie tali procedure.

La continua stimolazione digitale allena alcune abilità motorie riflesse a scapito di altre competenze. Apprendere la coordinazione incrociata “occhio-mano-cervello”, fondamentale per allacciarsi le scarpe, andare in bicicletta ma anche per imparare a scrivere, sarà sempre più faticoso per un bambino che viene continuamente rinforzato a performance digitali. I dati confermano queste osservazioni: da un lato si acquisisce sempre più precocemente l’abilità di digitare sulle tastiere, dall’altro aumentano in modo direttamente proporzionale le problematiche disgrafiche e disortografiche.

La psicologia cognitivo-comportamentale ci ha insegnato l’importanza del rinforzo per l’apprendimento di qualunque abilità, fisica e mentale. Quando l’ambiente non sollecita in modo costante uno sforzo adattivo al soggetto per diversificare la sua competenza, nella mente non si fissa il rinforzo necessario per apprendere una capacità più complessa. Tale principio ha un effetto anche sul versante cognitivo. Nel caso dei bambini “digitali” se l’attività richiesta resta fondamentalmente di stimolo-risposta, la loro soddisfazione (elemento fondamentale nei meccanismi di rinforzo) non dipenderà da un lavoro psichico, bensì dall’accelerazione di automatismi corporei digitali: input-output sempre più veloci. Come nei videogame, ma anche nel guardare la televisione, il dispositivo tecnologico fornisce dall’esterno tutto il necessario per il divertimento e il coinvolgimento senza richiedere alcuno sforzo né integrativo né elaborativo. Tuttavia, nella soddisfazione immediata digitale, si subisce un “processo di abituazione” che nel lungo periodo rende più insofferenti alla maggior attesa e sospensione necessaria per relazionarsi ad ambienti che richiedono tempi, ritmi e risposte in un altro formato come avviene nei contesti, come quello scolastico, basati sul codice analogico della parola.

La massiccia esposizione, in particolare dei soggetti in età evolutiva, al linguaggio digitale composto da stimoli sempre più veloci e risposte intuitive finisce nel tempo per alzare la soglia-base di reattività e tensione somatica agli eventi rendendo più faticoso l’apprendimento attraverso la modalità “analogica” e metaforica del linguaggio parlato, che richiede tempo, confronto e riflessione per poter essere acquisito e interiorizzato. In tali condizioni, come sanno bene gli insegnanti d’oggi, gli studenti sono meno disponibili a sopportare l’attesa e la frustrazione derivanti dalla mancanza di risposte e soluzioni immediate. In questo modo, è l’intero processo d’apprendimento a risultare inevitabilmente compromesso: il pensiero, infatti, nasce dalla capacità di sostenere il vuoto e l’attesa così come le abilità di leggere, scrivere e far di conto possono essere acquisite correttamente solo se si è in grado di tollerare l’insoddisfazione momentanea dell’errore.

L’ipotesi clinica che sto proponendo è la seguente: l’urgenza con la quale si manifesta nelle fasi precoci dell’apprendimento un tale ingombro del corpo finisce per invadere l’area del “mentale”, ostacolando pesantemente la corretta acquisizione delle abilità di lettura, scrittura e di calcolo favorendo, tra gli altri effetti, anche il moltiplicarsi delle diagnosi di DSA.

Nello scenario odierno, dunque, i “nativi digitali” acquisiscono un’abilità performativa notevole e una serie di strumenti comunicativi e relazionali in termini di linguaggio-macchina i quali, tuttavia, non sono vicariabili ad altre realtà di tipo dialogico e analogico. Tali problematiche riguardano soprattutto l’infanzia in quanto è nella fase pre-verbale dell’apprendimento che si costituiscono le fondamenta su cui poggerà l’intero impianto cerebrale del bambino, il quale, a scuola dai sei anni in poi, sistematizzerà i due principali universi simbolici che l’uomo utilizza per vivere: il linguaggio (scritto e parlato) e il sistema dei numeri. Ciò che osserviamo nei bambini e adolescenti di oggi che hanno trascorso la loro infanzia, cioè il periodo in cui è massima la porosità psichica e somatica alle influenze ambientali, nell’era digitale, è un maggiore rischio di sviluppare precocemente fenomeni di dis-crepanza tra schemi procedurali digitali rinforzati dalla tecnologia e una realtà, come ad esempio quella scolastica, che chiede (ma ancora per quanto?) risposte tramite codici simbolici e metaforici, cioè con i linguaggi su cui si basano i processi della lettura, della scrittura e del calcolo.

La dislessia, la discalculia, la disgrafia, la disortografia possono allora essere concepite come espressioni di un malessere attuale che segnala una difficoltà d’adattamento dei nativi digitali ad un contesto che da un lato spinge compulsivamente ad accelerare e ad agire in modo digitale anziché riflessivo, dall’altro richiede l’acquisizione di abilità analogiche che tuttavia oggi faticano enormemente ad essere interiorizzate, non trovando più le condizioni somato-psichiche di base per potersi costituire.

NOTE

(I)   Il concetto di “campo epistemico” sta ad indicare l’ambito all’interno del quale si può ottenere la conoscenza.

(II) Il metodo euristico consiste nella formulazione di ipotesi sull’organizzazione di un sistema a partire da elementi che “colgono” l’osservatore stesso catalizzando la sua attenzione; il Modello Psicosomatico concepisce la metodologia di osservazione, studio ed intervento come un processo che si costruisce passo dopo passo senza predisporre un protocollo a priori.

(III) La metacognizione riguarda tutti i processi della mente che “pensa di pensare”, è una funzione superiore di pensiero ed analisi che richiede un alto livello di elaborazione.

BIBLIOGRAFIA

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McLuhan M., (1964), Gli strumenti del comunicare, ed. it., Garzanti, Milano,

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Scognamiglio R.M., Il male in corpo, ed. Franco Angeli, Milano, 2008.